Omelia don Nicola Gallucci 8.9.2015
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Care Sorelle del nuovo Consiglio Provinciale,
è un’esperienza che ci capita di fare, e non una sola volta nella vita; forse qualcuno di noi l’ha appena vissuta o la sta tuttora vivendo: ci capita di affrontare o di stare con persone che affrontano una sofferenza che sembra senza scopo, assurda, senza senso. Nella nostra vita ci possono essere momenti in cui temiamo, anche di fronte a grandi responsabilità, di essere inghiottiti dal vuoto e ci sembra che ogni luce si spenga, ogni varco si chiuda, ogni forza si dissolva, perché Dio se ne è andato. E dal cuore esplode il grido: Dio, dove sei?
- Quella notte sul lago in tempesta i discepoli di Gesù hanno vissuto un’esperienza terrificante. Fino ad allora avevano conosciuto un Maestro travolgente: capace di infiammare le folle, tenero e potente con i malati, vigoroso e imbattibile nella lotta contro i demoni, autorevole come nessun altro quando parlava dell’amore di Dio, capace di incatenare con quel suo sguardo magnetico uomini massicci e muscolosi come loro. Ma adesso si trovano in mezzo alla burrasca, sotto un cielo nero pesto, su una povera barca che volteggia impazzita, trascinata su e giù dalle onde schiumose di un lago diventato improvvisamente intrattabile e ringhioso come un mastino inferocito. Loro - i compagni di Gesù - il lago lo chiamano mare e fin da piccoli hanno imparato a temerlo perché solo a prezzo di molto sudore concede qualche pesce da vendere, mentre non si sazia mai di rubare giovinezza e salute - e non poche volte perfino la stessa vita - a quei poveri diavoli di pescatori dei villaggi circostanti. Per questo il mare per loro è simbolo del male, soprattutto quando scoppia l’uragano e il lago di Cafarnao rassomiglia a un enorme ossesso scatenato.
Ma ora, nel cuore in subbuglio dei discepoli, alla paura si aggiunge l’angoscia: come mai, mentre essi tremano di spavento, il Maestro dorme, tranquillamente disteso a poppa, su un morbido cuscino? Sicurezza invincibile per la propria sorte personale, comunque vadano le cose? Indifferenza superiore e distaccata per la sorte di quegli uomini che, pure, per lui hanno lasciato lavoro e famiglia? Dal petto dei discepoli in preda al panico esplode il grido accorato: “Maestro, non t’importa che moriamo?”. Ecco il virus del sospetto che ha aggredito la loro mente e ha scatenato la tempesta dell’angoscia nel loro cuore: mettono in dubbio che a Gesù importi veramente di loro, della loro vita e incolumità. Con quel rimprovero sfrontato gli apostoli dimostrano di non fidarsi di Gesù, di non credere fino in fondo nel suo amore, nella sua volontà disinteressata di prendersi cura delle persone a lui affidate, nella sua premura gratuita nei confronti degli amici, soprattutto quando versano, come ora, letteralmente, in brutte acque. Al Maestro, invece, importa della vita dei suoi compagni, e come! In lungo e in largo nel vangelo brilla l’instancabile generosità di Gesù, che preferisce sempre il bene dei suoi al proprio successo e alla propria salvezza personale. Costantemente antepone la vita dei discepoli alla propria. Quando verranno per arrestarlo nel Getsemani, l’unica preoccupazione sarà per i Dodici: “Se è me che cercate, lasciate che questi se ne vadano” (Gv 18, 8).
Ecco la risposta del Maestro al grido angosciato dei compagni di traversata, una risposta da par suo: pronta e autorevole, solenne, efficace, rapida e risolutiva. “Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: ‘Taci, calmati!’”. Questo stile di intervento da parte di Gesù lo conosciamo già. Infatti ritornano qui due verbi che abbiamo incontrato nel primo “miracolo” di Gesù - in realtà si è trattato di un esorcismo - da lui operato in quella giornata-tipo di Cafarnao. Il primo verbo è sgridare rivolto al vento infuriato, come aveva fatto con l’indemoniato della sinagoga. L’altro verbo è rivolto al mare, al quale Gesù comanda non solo di tacere ma pure di calmarsi, letteralmente mettersi la museruola, espressione tipica, perché in ebraico e in arabo il vento o il mare non urla, come diciamo noi, ma abbaia, quasi fosse un cane rognoso.
Dunque: il mare si comporta come un energumeno spiritato?
Ebbene, Gesù lo tratta come solo un esorcista esperto sa fare. Neanche stavolta il Maestro manca il colpo; e il risultato non si fa attendere: “Il vento cessò e vi fu grande bonaccia”. Ma Gesù è rimasto colpito al cuore dall’incredulità dei discepoli; di qui il suo rimprovero amaro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”. La lezione è chiara: il contrario della paura non è il coraggio, ma la fede!
- Sorelle carissime, siamo partiti dalla nostra vita per andare alla Parola; ora dalla Parola torniamo alla vita. Oggi la nostra si presenta come la cultura dell’incertezza. Siamo perennemente in ansia. Soffriamo di una profonda insicurezza, nonostante o proprio per questo, almeno in Occidente, siamo più protetti e garantiti. Abbiamo cure mediche più efficaci, trasporti più sicuri, territori più e meglio difesi. Oggi possiamo controllare tante cose. Ma paradossalmente è proprio la cultura del controllo a generare angoscia. E spesso, come ricordavo, pure innanzi a gravi e grandi responsabilità ci sembra di essere esposti al naufragio: quante volte ci pare di dover affrontare - nella traversata della vita, come essere elette Provinciale o nel Consiglio Provinciale - tempeste paurose che rischiano di travolgerci?
L’unica forza che può salvarci è la fede-fiducia in Dio, il quale è infinitamente più sapiente, più potente, più benevolo di noi: “Gettate in lui - raccomandava san Pietro - ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi” (1 Pt 5, 7). “Un giorno - narra un apologo molto caro a Martin Luther King - la paura bussò alla porta; la fede andò ad aprire: non c’era nessuno”.
L’eucaristia ci ripropone il dono d’amore che il Signore Gesù fece di se stesso, “nella notte in cui veniva tradito”, nel momento in cui le forze del male stavano per inghiottirlo, segno che egli è in mezzo a noi, vivo e operante, anche quando sembra che dorma. Troviamo dunque nel pane eucaristico la forza e la fiducia che ci permettono di affrontare le tempeste della vita.
Care Sorelle siate sempre consapevoli nel vostro ufficio di Provinciale e di Consigliere che l’unica misura dell’amore è amare senza misura. Contagiate con questo amore di predilezione tutte le consorelle che incontrate.
E tu, Maria, Madre del buon consiglio, veglia su tutti noi, veglia su queste tue figlie, portaci a Cristo, portaci a dimorare sempre nel suo amore. San Vincenzo Pallotti, nostro santo fondatore, prega per queste Sorelle del nuovo Consiglio della Provincia Italiana, prega per noi ora e sempre. Amen.