Triduo e Festa di San Vincenzo Pallotti
a cura di paolo (0 commenti)

Riportiamo l’omelia di Padre Ciardi, tenuta all’apertura del Triduo in onore di San Vincenzo del 2018- E’ sempre bello e fa bene riproporla alla meditazione di tutti.
22 gennaio, festa di san Vincenzo Pallotti. Quest’anno a me l’onore di aprire, sabato scorso nella chiesa di san Salvatore in onda, il triduo in preparazione della festa. Con mia sorpresa nella preghiera che ha preceduto la Messa, ho visto citato un brano di una lunga conferenza che aveva tenuto 20 anni fa sulla spiritualità pallottina.
Ecco quanto hanno letto di quella conferenza, poi pubblicata: Sei parole per la spiritualità di san Vincenzo Pallotti, “Apostolato universale”, 1 (1999), n. 1, p. 60-79 (polacco, Sw. Wincenty Pallotti, zycie, dzuelo, charyzmat, 2 (4) 2007, p. 5-32).
Le prime due parole che subito attirano la mia attenzione sono state tutto e infinito, due parole che si richiamano costantemente l'un l'altra, che aprono ad una dimensione olistica, che spalancano gli orizzonti e lasciano respirare l'anima. (...)
Il tutto di san Vincenzo è innanzitutto il tutto di Dio.
«Dio mio, tutto tutto tutto...», lo sentiamo ripetere sovente. Ed è capace di continuare a scrivere e a ripetere indefinitivamente - lui vorrebbe che fosse infinitamente - la parola tutto, quasi a scandagliare la vastità insondabile del mistero divino.
Per sottolineare il tutto di Dio congiunge a tutto la parola solo: «Dio tutto, tutto, tutto...», ma anche «solo, solo, solo...», quasi ad eliminare ogni possibile concorrenza al tutto di Dio. È il biblico: «Tu sei il solo Dio, non c'è altro Dio fuori di te». (...)
Se Dio è il solo e il tutto in sé, lo deve essere anche in me. Il tutto di Dio diventa allora il tutto della creatura, in quanto essa viene resa partecipe di quel tutto. La convinzione di questa osmosi è affermata da queste parole lapidarie: «La vita del Padre è mia, la vita del Figlio è mia, la vita dello Spirito Santo è mia, la vita della Santissima Trinità è mia».
È il coinvolgimento di tutta intera la persona nell'interezza del mistero, in un costante procedere da totalità a totalità, con orizzonti illimitati, anzi infiniti. (...)
L'impiego della parola infinito, correlata a tutto, fa intravedere la dimensione forse più originale della spiritualità di san Vincenzo. Parla di «infinita perfezione», di «infinita fede, infinita speranza, infinita carità», «infinite eternità»; vuol dare a Dio una «gloria infinitamente grande»; è disposto a «patire infinitamente»; vuole vedere dilatati all'infinito i suoi desideri; anche il disprezzo di sé lo vuole all'infinito, perché la sua miseria la vede infinita, ed infinita la sua ignoranza e empietà.
Nei suoi scritti torna insistentemente il desiderio dell'infinito, spingendo l'ampiezza dei desideri all'infinito, talvolta addirittura - cosa mai vorrà dire? - al di là dell'infinito. Questo imprime alla sua spiritualità un respiro ampio e positivo, capace di far spaziare nell'immensità e nell'eternità di Dio.
La coscienza della propria «infinita miseria, ignoranza ed empietà» non impedisce a san Vincenzo di desiderare quell'infinitezza positiva che lo ponga alla pari, se così possiamo dire, con l'infinitezza di Dio. (...)
Ed eccolo allora intento in improbabili operazioni matematiche, nel tentativo di esprimere il suo più profondo infinito anelito di amore.
Somma passato e futuro nell'illusione di dilatare il tempo all'infinito. Suddivide il tempo in attimi infinitesimali per fare di ogni attimo infinitesimale un infinito, così che dalla loro somma scaturisca un infinito degno dell'infinito di Dio. Vorrebbe moltiplicare le creature all'infinito perché salga a Dio una lode infinita. Vorrebbe appropriarsi di tutto il bene delle creature passate presenti e futuri e moltiplicate all'infinito...
Avremmo qui una colluvie di testi da citare. Uno solo basti:
«Tutto quello di buono che hanno fatto, fanno, e faranno tutte quante le creature, e tutto quello che io ho fatto, faccio e farò per la massima etc. gloria del nostro Dio, e Padre celeste (...) intendo che sia fatto (...) con una infinita perfezione (…) da tutte quante le creature esistenti e possibili, ragionevoli, e irragionevoli, sensibili, e insensibili, e fingendo che ciascuna (...), ciascuna infinitamente moltiplicata ad ogni momento infinitesimo, e ciascuno di questi momenti infinitesimi sia pur moltiplicato in infinito (...), intendo che ciascuna di queste creature sia infinitamente moltiplicata ad ogni momento infinitesimo di tutte l'eternità infinite (...), ed intendo che ciascuna molecola elementare de' corpi sia infinitamente moltiplicata ad ogni momento infinitesimo da tutte l'eternità per tutte l'eternità infinitamente. [Ed intendo] che ciascuna di queste infinitamente moltiplicata (...) addivenga infiniti Universi contenendo in se stessi tutte le creature esistenti e possibili (...)».
Padre Fabio Ciardi
Pallotti, il pellegrino della speranza
(Omelia pronunciata nella chiesa di San Salvatore in Onda, Roma, 9 gennaio 2025)
Sorelle e Fratelli,
Vi ringrazio di cuore per l’invito a partecipare a questa straordinaria celebrazione, durante la quale aggiungiamo l'aspetto pallottino all'Anno Giubilare recentemente inaugurato da Papa Francesco.
Lo facciamo in un giorno particolarmente significativo, in cui commemoriamo il 190° anniversario della grande illuminazione spirituale che si manifestò nel cuore di San Vincenzo Pallotti. Proprio il 9 gennaio 1835, egli riconobbe definitivamente il carisma con cui il Signore lo aveva arricchito e la chiamata a condividere questo dono con gli altri.
Come ogni carisma, si tratta, infatti, di un dono concesso ad uno per edificare tutti! Ancor’oggi, tutti noi – membri della Famiglia Pallottina intesa in senso ampio, ma anche coloro che non hanno un legame stretto con essa – leggendo i testi di Pallotti, rimaniamo profondamente colpiti dalla forza interiore che animava il nostro Fondatore.
Non intendo analizzare il testo dell’Ispirazione, perché è ben noto a tutti noi ed è già stato approfondito molte volte, anche meglio di quanto lo potrei fare io. Vorrei invece soffermare la vostra attenzione, anche solo per un momento, sul tema della speranza. I motivi di questa mia scelta ce ne sono due: innanzitutto, perché
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la speranza rappresenta il tema centrale dell’Anno Giubilare; in secondo luogo, perché proprio dal testo dell’Ispirazione carismatica emerge una speranza straordinaria. Pallotti è stato un pellegrino della speranza nel senso descritto da Papa Francesco nella bolla che proclama l’attuale Anno Santo. Egli stesso era colmo di speranza e sapeva infondere efficacemente questa virtù negli altri.
L’Anno Giubilare rappresenta un’occasione non solo per raccontare agli altri la nostra speranza, spiegare dove si trovano le sue fonti e cosa essa significhi per noi. L’Anno Giubilare ci offre innanzitutto un’opportunità per una riflessione più interiore. Questa riflessione può aiutare la nostra comunità dell’Unione dell’Apostolato Cattolico a diventare più consapevoli della speranza che è in noi (cfr. 1Pt 3,15). È un invito a impegnarci con maggiore intensità nel lavoro sulla nostra speranza.
Le parole di San Giovanni Paolo II pronunciate nel 1987 e rivolte alle autorità comuniste della Polonia rimangono ancora attuali: il futuro dell'umanità è nelle mani di coloro che sapranno trasmettere alle generazioni future i "motivi di vita e di speranza". Anche la Chiesa deve continuamente ricordare a se stessa da dove trae questi motivi: di vita e di speranza.
L’Anno Giubilare può dunque rappresentare un’occasione per la Chiesa e per ciascuno nella Chiesa di lavorare proprio sulla speranza. Non si può infatti offrire agli altri qualcosa che non si possiede. Se vogliamo essere – come Chiesa, e ancor di più
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come Famiglia Pallottina – “portatori di speranza”, ciò che costituisce la nostra missione ed una grande benedizione per il mondo, dobbiamo prima essere “pieni di speranza”.
La speranza è spesso confusa oggi con l'ottimismo, che è qualcosa di molto meno profondo e sentimentale. L'ottimismo è una sorta di benessere, una previsione abbastanza superficiale e spesso ingenua che il domani sarà migliore di oggi. L'ottimismo è capriccioso e mutevole.
Il pellegrino della speranza, diversamente dal viandante ottimista, riconosce tutto il realismo della vita e la sua complessità. Non finge e non si illude, né illude gli altri, che la vita sia facile oppure priva di problemi. Tuttavia, è certo, basandosi sull'esperienza personale o collettiva, che gli ostacoli possono essere superati, che la vita non è priva di scopo o di significato, che l'uomo – con l'aiuto degli altri – è capace di superare le difficoltà incontrate e di rialzarsi anche dopo una caduta.
Papa Francesco, spiegando il significato del titolo di Maria, Madre della Speranza, che ha aggiunto alle Litanie Lauretane, ha affermato: “Maria non è una donna che si deprime davanti alle incertezze della vita, specialmente quando nulla sembra andare per il verso giusto. Non è nemmeno una donna che protesta con violenza, che inveisce contro il destino della vita che ci rivela spesso un volto ostile. È invece una donna che ascolta. Maria accoglie l’esistenza così come essa si consegna a noi, con
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i suoi giorni felici, ma anche con le sue tragedie che mai vorremmo avere incrociato. (…) Ella ci insegna la virtù dell’attesa, anche quando tutto appare privo di senso: lei sempre fiduciosa nel mistero di Dio, anche quando Lui sembra eclissarsi per colpa del male del mondo”.
Un’illustrazione della speranza può essere trovata nei risultati di alcuni esperimenti condotti da Curt Richter, biologo e genetista americano, famoso a metà del XX secolo per le sue ricerche sui ratti. Uno di questi esperimenti dimostrò che i ratti immersi nell'acqua senza possibilità di scampo sopravvivevano molto più a lungo quando avevano avuto in precedenza l’esperienza di essere stati salvati.
In poche parole: ciò che mi ha salvato, o di cui so con certezza che ha salvato altri, mi dà speranza che anche io, per la prima volta o nuovamente, sarò salvato quando mi troverò in difficoltà o in pericolo.
La speranza può quindi essere trasmessa da un’altra persona che, nella sua nobiltà d’animo, ha dimostrato di essere affidabile nella mia vita o in quella degli altri; può derivare da una medicina che ha già funzionato per qualcuno o, ad esempio, da un luogo che ha aiutato molte persone a rimettersi in piedi.
Tuttavia, la speranza non deve necessariamente essere legata a un oggetto fisico concreto. La sua fonte può essere anche un’immagine, un’idea o una narrazione. Ad esempio, una persona in pericolo può ascoltare un racconto su un aiuto imminente, che però si rivela essere una menzogna. Finché
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questa menzogna non viene smascherata, la speranza di quella persona sarà comunque "vera" e produrrà gli effetti desiderati.
La speranza non è quindi in alcun modo la "madre degli stolti", come spesso viene ingiustamente definita in un proverbio polacco. Al contrario: è la madre dei saggi, la sorella della fede e dell'amore. Come disse Charles Péguy, pensatore francese: “La Fede è una cattedrale radicata nel suolo di un paese. La Carità è un ospedale che raccoglie tutte le miserie del mondo.
Ma senza Speranza, tutto questo non sarebbe che un cimitero.” Apprezzo molto anche questa definizione della speranza data da Papa Benedetto XVI: “La speranza è la fede che è ancora possibile vivere l’amore.”
L’opposto estremo della speranza è la disperazione, ovvero uno stato definito come la perdita della speranza. "No, non sarò salvato," dice l’uomo disperato. "Nulla e nessuno potrà più salvarmi.
Nessuno ne è capace, e persino essere salvati non ha più alcun senso." Questo concetto è ben rappresentato dalle lingue di derivazione latina, che parlano di "desperazione" – un termine che esprime chiaramente la negazione della speranza. Se la speranza è "spes", la disperazione è l’assenza di speranza.
Quando al sostantivo "speranza" aggiungiamo l'aggettivo "cristiana", pensiamo inevitabilmente a Cristo. Per poter riporre in Lui la mia speranza, e ancor di più, per poter riconoscere Cristo come la mia speranza, devo avere un’esperienza personale di essere stato salvato da Lui, oppure nutrire una convinzione
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interiore, scaturita dalla testimonianza di altri, che Cristo è in grado di farlo.
Questa testimonianza può essere rappresentata dal testo della Bibbia, dall'insegnamento della Chiesa e – last but not least – dalla vita delle persone che sono state salvate da Cristo.
La speranza riguarda sempre il futuro, ma la speranza cristiana, a differenza di quella mondana, si riferisce anche al futuro eterno che Dio ha promesso all’uomo in Gesù Cristo. Non esiste cristianesimo né speranza cristiana senza un coerente annuncio della speranza della vita eterna. Senza di essa, le nostre piccole speranze, quelle che riguardano la vita terrena, rimangono incomplete, poco chiare e insufficienti. Hanno bisogno – per citare Benedetto XVI nell'enciclica Spes salvi – di una grande speranza.
Che l’Anno Giubilare possa essere un’occasione per una seria catechesi anche su questo tema. È una sfida difficile, perché oggi molti non si pongono più la domanda del giovane uomo del Vangelo: "Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?" (Lc 18,18). Si concentrano esclusivamente sulle questioni terrene.
D’altra parte, lo stesso uomo contemporaneo non accetta interiormente che l’ultima parola pronunciata sulla sua bara sia semplicemente: "onoriamo la sua memoria", invece di: "riposa in pace". Lo esprime con sincerità Umberto Eco nella toccante
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corrispondenza con il cardinale Carlo Maria Martini SJ, pubblicata nel libro dal significativo titolo: In cosa crede chi non crede.
L’uomo pieno di speranza sa, come dice oggi san Giovanni, che il suo amore sulla terra può esistere solo se alimentato dall’amore di Dio, che un giorno vedremo (cfr. 1 Gv 4,11-12). Ha fiducia “nel giorno del giudizio” (1 Gv 4,17).
Può ripetere con il Salmista di oggi: “egli libererà il misero che invoca e il povero che non trova aiuto.” (Sal 72,12). Questo vale anche per il nostro morire. Ognuno, indipendentemente dai beni materiali accumulati sulla terra, sarà in quel momento un misero e un povero, privo di ogni sostegno umano e terreno. Potrà contare solo sull’aiuto dell’eterno Dio.
La speranza cristiana è un atteggiamento interiore del cuore, una profonda convinzione che la mia vita, costruita nell’unità con Cristo, ha senso, anche – e soprattutto – nei momenti difficili, quando la piccola barca della nostra esistenza si trova spesso "controvento" (Mc 6,48).
Come gli apostoli del brano evangelico appena ascoltato, siamo scossi da onde minacciose, privi di controllo sulle circostanze e sulla vita (cfr. Mc 6,45-52). Tutto sembra crollare, come un castello di carte. Ed è proprio in quei momenti che Cristo, emergendo dalla nebbia e dalle tenebre, ci parla con dolcezza:: "Coraggio, sono io, non abbiate paura” (Mc 6,50).
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La speranza è la certezza che il cammino che il Vangelo mi propone è autentico, che non mi condurrà fuori strada, anche se spesso si tratta di un percorso difficile. La speranza cristiana è la convinzione che la mia fede in Cristo non sia un errore, e che ciò che, sulla base di essa, ho cercato finora di mettere in pratica nella vita – pur consapevole delle mie insufficienze e carenze – siano state scelte giuste.
Anche se spesso solitarie e impegnative.
La speranza cristiana ci dà la forza di amarci gli uni gli altri, perché questo ci apre ancora di più all’amore di Dio, come ci ha ricordato oggi San Giovanni Apostolo (cfr. 1 Gv 4,12).
E per concludere, cito Papa Francesco nell'esortazione Evangelii gaudium: “(…) abbiamo riflettuto su quella carenza di spiritualità profonda che si traduce nel pessimismo, nel fatalismo, nella sfiducia. Alcune persone non si dedicano alla missione perché credono che nulla può cambiare e dunque per loro è inutile sforzarsi. (…)
Se pensiamo che le cose non cambieranno, ricordiamo che Gesù Cristo ha trionfato sul peccato e sulla morte ed è ricolmo di potenza. Gesù Cristo vive veramente. Altrimenti, «se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione» (1 Cor 15,14). Il Vangelo ci racconta che quando i primi discepoli partirono per predicare, «il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola» (Mc 16,20). Questo accade anche oggi. Siamo invitati a scoprirlo, a viverlo. Cristo risorto e glorioso è la
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sorgente profonda della nostra speranza, e non ci mancherà il suo aiuto per compiere la missione che Egli ci affida”
Queste parole potrebbero davvero essere pronunciate da San Vincenzo Pallotti, il quale, con il suo zelo apostolico e la sua fede incrollabile, ha incarnato la speranza cristiana come missione. Che possiamo farle nostre, pronunciarle con convinzione e vivere secondo il loro spirito. Che possiamo essere, come lui, pellegrini della speranza, capaci di portare luce e conforto al mondo, e mai vagabondi della disperazione.
Amen!
+ Adrian J. Galbas SAC