Prendersi cura della terra, nostra casa comune

a cura di paolo (0 commenti)

Dopo il Covid-19 diventeremo migliori? Una serie di riflessioni per una nuova immaginazione del possibile. Parte V.      

Plaudo all’iniziativa, che si pone nella storia che condividiamo ognuno per la sua parte, dei frati carmelitani, che in questi frangenti di smarrimento e di domande ci intrattengono sul post pandemia. Un post che, come stiamo sperimentando, seppur deve attuarsi in toto, non può che farci pensare, riflettendo con molta serenità su ciò che questa esperienza, unica e sconvolgente, di questi mesi, vissuta e subita, accolta e rifiutata, letta e sempre meditata, ci chiede. Dopo gli interventi già ascoltati mi si richiede una riflessione sulla casa comune legata all’impegno di prendersi cura della terra in cui viviamo. Ho letto questo titolo come un invito a considerare l’impegno etico che promana dalla nostra vita cristiana, per una custodia del creato che, al di là degli sviluppi delle motivazioni che hanno dato vita a questa pandemia, se mai li sapremo, si deve addurre come responsabilità grave e allo stesso tempo serena che promani dalla nostra vita di fede.

Non possiamo dirci credenti se non risuona in noi, con forza, il comandamento della custodia del creato (cf. Gen 2,15) che la bontà di Dio, che ci ha creati a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26), ci richiede per ritrovarci nell’orbita della sua volontà, che è sempre una volontà di bene e di amore. In poche parole, lo affermo già all’inizio, non possiamo più farci latori di deleghe in bianco su tutto ciò che in modo così vertiginoso, stiamo vivendo, nella trasformazione del pianeta terra e che riguarda lo sfacelo del mondo creato, animale e vegetale, causato dall’incuria e dalla boria dell’uomo faber, unicamente proteso ai propri interessi e ad uno stile di vita che, come tante volte dice papa Francesco, avalla e alimenta quella cultura dello scarto (cf. Evangeliigaudium, nn. 53-60; Laudatosi’, nn. 20-22) che coinvolge popolazioni intere e, tra di noi, milioni di fratelli e sorelle che vivono con noi.

  1. La situazione inedita del nostro tempo

Si capisce, leggere il nostro oggi non è facile. Siamo dinanzi ad un oggi che sembra, purtroppo, più dominato dalla paura; cosa, intendiamoci, poi non del tutto negativa se solo si sappia affrontare; un oggi, che ci pone dinanzi orizzonti non del tutto nitidi, frutto di una confusione che rimane: «dalla martellante retorica di un #andràtuttobene (quasi magicamente, senza responsabilità e impegno umani) alla sfida alle regole, che mette a rischio l’incolumità personale e altrui, passando dall’angoscia mediata da numeri, statistiche, limitazioni e dal sospetto». Lo diciamo difatti sussurrando, da una parte, l’incoraggiante slogan – coraggio, ce la faremo! – ma, dall’altra parte, ascoltando anche lo sconfortante assioma – non abbiamo, per nulla, cambiato nulla – costatando più che sfiducia direi l’esilarante verità dell’incapacità della tenuta etica che alcune affermazioni, come le nostre attese di giustizia, di fratellanza, di condivisione, di, in una parola per noi credenti, carità operosa, pretendono. Queste difatti dovevano chiamare, ad una risposta corale ed interrogarci, e seriamente, sui nostri stili di vita e sulle stesse attese che la pandemia avrebbe dovuto provocare nei cuori dei credenti e che invece, sembra proprio, non abbia provocato.

Dovremmo considerare con estrema verità la duplice possibilità che può scaturire da questa esperienza mondiale, che, se anche è chiara nella sua manifestazione, ci deve trovare seriamente impegnati a deciderci verso una direzione. Come afferma papa Francesco: «La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali, o usciamo migliori, o usciamo peggiori. Questa è la nostra opzione. Dopo la crisi, continueremo con questo sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura dell’ambiente, del creato, della casa comune? Pensiamoci». Difatti bisogna riconoscere che «il COVID-19 ha messo tutti in una condizione di difficoltà inedita e drammatica, che ci ha trovati impreparati nel gestire il contenimento del contagio, che ha galoppato come un cavallo imbizzarrito in ogni angolo della terra. Questo virus, invisibile come il vento e veloce come la luce, è penetrato ovunque abbattendo muri, scavalcando frontiere, colmando fossati e si è diffuso rapidamente in tutto il mondo attraverso la rete dei trasporti, delle relazioni sociali, mettendo in discussione tutto, in particolare il nostro modo di pensare, di vivere, di agire, di relazionarci…».

  1. Scelte etiche conformi alla fede
  2. a) Coltivare il senso del bene comune

Questa chiarezza così martellante presente nei media, interroga noi, uomini e donne di fede, ricordiamo difatti che «il messaggio cristiano, che è seme di speranza e lievito di fraternità, s’inserisce nella tragicità delle situazioni più dolorose per alimentare fiducia, speranza, amore e realizzare il maggior bene possibile per tutti, in particolare per le persone più fragili e vulnerabili». Il nostro meditare, pensare, riflettere, ci rischiara il senso del nostro fare. L’etica teologica si è interrogata su questa situazione, per alcuni versi inedita e che biblicamente ci ricorda, come è stato qui più volte ricordato, nei precedenti incontri, che nonostante tutto il Signore non ci abbandona, che anzi il nostro Dio, che si pone nella storia degli uomini, soffre con noi e non ci lascia mai da soli, cammina con noi e dunque, in una parola, non può mai essere “contro di noi” ma è sempre “per noi”. I teologi morali riflettendo sull’evidente problema odierno hanno ribadito in un manifesto sul dopo pandemia, alcune espressioni che mi piace condividere:

«Il pensiero teologico ha bisogno di indugiare sul vissuto, per offrire una parola propria, costruttiva e ricostruttiva; ha bisogno del tempo disteso del discernimento, per una contaminazione feconda – nel segno del bene e della giustizia – tra la vita umana e l’avvento del Dio della vita. Essa (la vita umana) ricerca una parola pensata e pesata, sofferta e leale; una parola ricca di senso e indicatrice di direzioni; prudente eppure responsabile nelle prese di posizione e nelle scelte; critica delle ambivalenze della vita culturale e socio-politica. Una parola densa di pudore, che non profana la dignità altrui, né produce violenza, ma dialoga, con rispetto e riconoscimento dei suoi interlocutori, in trasparenza e verità».

Mi sembra che tali affermazioni sia per la riflessione teologica che per la vita concreta ci richiamino a quel senso di responsabilità che nell’ambito sociale è senso della Stato, è senso del bene comune nel ricercare il bene, nel caso specifico la salute di ognuno e di tutti. Troppe, e direi sempre specie in una certa politica, parole contro, espressioni stereotipate e sempre dense di negatività, di visioni sempre distorte e poche accorte alla realtà. In questa logica qualsiasi riflessione, col senno del poi, deve essere, alla luce dell’esperienza vissuta, un richiamare quel quotidiano dove, ognuno di noi, risponde alle esigenze che Iddio stesso pone. La pandemia ha stravolto questo nostro quotidiano ha dato adito, con molta verità, allo stravolgimento dei tempi, dei momenti, di vita familiare, sociale, ludica, religiosa, ecclesiale.

Abbiamo costatato, con un coinvolgimento duplice, imposto da una parte e necessario dall’altra, la precarietà dei nostri stili di vita, ritornando ad una essenzialità che ci ha fatto pensare a periodi, specie per i più anziani, di un passato oramai dimenticato, se si pensa ai tempi di altre pandemie o, alle situazioni di guerra e terrorismo, dove gli eventi si impregnavano di un vissuto partecipato, che coinvolgeva ognuno e tutti, richiamandoci al nostro essere comunità, popolo, più che individui isolati. Ci vengono ancora in aiuto come voce che grida nella storia – ci auguriamo non nel deserto – le espressioni di papa Francesco in questi frangenti difficili:

«Il coronavirus ci mostra che il vero bene per ciascuno è un bene comune non solo individuale e, viceversa, il bene comune è un vero bene per la persona (cfr Catechismo Chiesa Cattolica, nn. 1905-1906). Se una persona cerca soltanto il proprio bene è un egoista. Invece la persona è più persona, quando il proprio bene lo apre a tutti, lo condivide. La salute, oltre che individuale, è anche un bene pubblico. Una società sana è quella che si prende cura della salute di tutti… La crisi che stiamo vivendo a causa della pandemia colpisce tutti; possiamo uscirne migliori se cerchiamo tutti insieme il bene comune; al contrario, usciremo peggiori. Purtroppo, assistiamo all’emergere di interessi di parte… Un virus che non conosce barriere, frontiere o distinzioni culturali e politiche deve essere affrontato con un amore senza barriere, frontiere o distinzioni. Questo amore può generare strutture sociali che ci incoraggiano a condividere piuttosto che a competere, che ci permettono di includere i più vulnerabili e non di scartarli, e che ci aiutano ad esprimere il meglio della nostra natura umana e non il peggio. Il vero amore non conosce la cultura dello scarto, non sa cosa sia. Infatti, quando amiamo e generiamo creatività, quando generiamo fiducia e solidarietà, è lì che emergono iniziative concrete per il bene comune».

  1. b) Prendersi cura degli altri

«La pandemia ha messo in risalto quanto siamo tutti vulnerabili e interconnessi. Se non ci prendiamo cura l’uno dell’altro, a partire dagli ultimi, da coloro che sono maggiormente colpiti, incluso il creato, non possiamo guarire il mondo. È da lodare l’impegno di tante persone che in questi mesi stanno dando prova dell’amore umano e cristiano verso il prossimo, dedicandosi ai malati anche a rischio della propria salute. Sono degli eroi! Tuttavia, il coronavirus non è l’unica malattia da combattere, ma la pandemia ha portato alla luce patologie sociali più ampie. Una di queste è la visione distorta della persona, uno sguardo che ignora la sua dignità e il suo carattere relazionale. A volte guardiamo gli altri come oggetti, da usare e scartare. In realtà, questo tipo di sguardo acceca e fomenta una cultura dello scarto individualistica e aggressiva, che trasforma l’essere umano in un bene di consumo (cfr Evangeliigaudium, nn. 53; Laudatosi’, n. 22)».

«Una società sana è quella che si prende cura della salute di tutti». Ed ancora: «Se non ci prendiamo cura l’uno dell’altro, a partire dagli ultimi, da coloro che sono maggiormente colpiti, incluso il creato, non possiamo guarire il mondo». Il prendersi cura per garantire la salute di tutti e di ciascuno fa crescere in umanità e richiede un grande senso di responsabilità, di corresponsabilità, di dedizione, di generosità, di amore. Il prendersi cura ci ricorda lo sguardo di compassione di Gesù verso ogni categoria di bisogni, nella sola certezza che lo guidava: l’uomo ha bisogno di me! Il prendersi cura ricorda a tutti e a ciascuno come la comunità cristiana è nel mondo come segno e strumento di quella salvezza che non può mai monopolizzarsi ma, di una salvezza che appunto salva e salva sempre e salva tutti.

  1. c) Custodi per la vita e non deturpatori e manipolatori per la morte del creato

Il dopo pandemia, o meglio il pensare al dopo pandemia, ci da modo di riflettere sul senso di ciò che si è vissuto, non sono difatti pochi gli interventi che in varie sedi si sono avuti a proposito , e ci chiede responsabilità, con questo sguardo adulto che ci ricordi che non ci si salva da soli, ma che tutti siamo chiamati alla salvezza come dono reciproco del Creatore da accogliere e vivere. L’uomo deve scegliere tra l’essere il luogotenente di Dio che regna sulla creazione e autorevolmente ne accresce la vita ponendosi nella logica del rapporto tra Creatore e creatura che la rielezione gli ha dato, o, al contrario “essere deturpatore, sfruttatore, dominatore della creazione”. Come non rendersi conto che il peccato che, nella rivelazione è sempre morte, si pone nelle scelte dell’uomo, con il suo sì, manifesto e deciso, che gli fa sbagliare il fine della sua propria esistenza? I quattro ambiti che già la Reconciliatio et paenitentia ci ricordavano (cf. ReP n.15.17) non possono che divenire un vero invito ad esaminare la nostra coscienza; difatti, l’uomo, non pecca solo contro Dio, contro i fratelli, contro se stesso, ma anche contro la natura, rendendo sovente la terra desolata.

Dietro l’ecologia, la salvaguardia del creato, vi è la concezione dell’uomo, cioè un’antropologia che, nella visione teologica, alla luce della Scrittura, ci ricorda che l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è custode del creato, non suo creatore e manipolatore. Tutto ciò che svilisce questa verità incontrovertibile pecca contro se stesso, contro gli altri, contro, appunto l’ambiente, e contro Iddio, facendo emergere con chiarezza i quattro ambiti che qualsiasi peccato nasconde e rivela, come si diceva. Ci ricorderebbe papa Francesco nella Laudatosi’ (nn. 8-9), citando il patriarca ecumenico Bartolomeo I a cui si deve un indefesso impegno per la salvaguardia del creato:

«Il Patriarca Bartolomeo si è riferito particolarmente alla necessità che ognuno si penta del proprio modo di maltrattare il pianeta, perché “nella misura in cui tutti noi causiamo piccoli danni ecologici”, siamo chiamati a riconoscere «il nostro apporto, piccolo o grande, allo stravolgimento e alla distruzione dell’ambiente». Su questo punto, egli si è espresso ripetutamente in maniera ferma e stimolante, invitandoci a riconoscere i peccati contro la creazione: “Che gli esseri umani distruggano la diversità biologica nella creazione di Dio; che gli esseri umani compromettano l’integrità della terra e contribuiscano al cambiamento climatico, spogliando la terra delle sue foreste naturali o distruggendo le sue zone umide; che gli esseri umani inquinino le acque, il suolo, l’aria: tutti questi sono peccati”. Perché “un crimine contro la natura è un crimine contro noi stessi e un peccato contro Dio”.

Allo stesso tempo Bartolomeo ha richiamato l’attenzione sulle radici etiche e spirituali dei problemi ambientali, che ci invitano a cercare soluzioni non solo nella tecnica, ma anche in un cambiamento dell’essere umano, perché altrimenti affronteremmo soltanto i sintomi. Ci ha proposto di passare dal consumo al sacrificio, dall’avidità alla generosità, dallo spreco alla capacità di condividere, in un’ascesi che “significa imparare a dare, e non semplicemente a rinunciare. È un modo di amare, di passare gradualmente da ciò che io voglio a ciò di cui ha bisogno il mondo di Dio. È liberazione dalla paura, dall’avidità e dalla dipendenza”. Noi cristiani, inoltre, siamo chiamati ad “accettare il mondo come sacramento di comunione, come modo di condividere con Dio e con il prossimo in una scala globale. È nostra umile convinzione che il divino e l’umano si incontrino nel più piccolo dettaglio della veste senza cuciture della creazione di Dio, persino nell’ultimo granello di polvere del nostro pianeta”».

Proprio qualche giorno fa, ricevendo a Roma la laurea honoris causa in filosofia, alla Pontificia Università Antonianum di Roma, nella sua lectio magistralis, il patriarca ecumenico Bartolomeo I affermava:

«Prendersi cura delle risorse umane è una questione di veridicità verso Dio, perciò viene condannato l’abuso ambientale come un peccato… prendersi cura dell’ambiente non è solo una questione politica o economica, ma prima di tutto una questione religiosa ed etica: tutti abbiamo la responsabilità di considerare il modo in cui abitiamo il mondo, non isolati e indifferenti a ciò che ci circonda perché siamo esseri sociali creati per l’incontro personale e saremo giudicati come persone, società e nazioni. E inconcepibile preoccuparsi dell’uomo e distruggere la sua Casa e viceversa: la protezione dell’ambiente naturale e la reale cura del prossimo sono due facce della stessa medaglia».

Nella sua ultima enciclica – Fratelli tutti – papa Francesco, quasi presago di una pandemia che passa ma di un domani da costruire che interroga, tracciava quasi un invito ad un esame di coscienza collettivo per non chiudere gli occhi dinnanzi ad una realtà che noi abbiamo fagocitato e, ugualmente, per pensare ad un mondo altro, diverso, nuovo, i cui non solo abbiamo bisogno ma non possiamo che desiderare come chance di sopravvivenza per noi e per le generazioni future (nn 32-36):

«Una tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme. Per questo ho detto che “la tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. […] Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli”.

Il mondo avanzava implacabilmente verso un’economia che, utilizzando i progressi tecnologici, cercava di ridurre i “costi umani”, e qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro. Ma il colpo duro e inaspettato di questa pandemia fuori controllo ha obbligato per forza a pensare agli esseri umani, a tutti, più che al beneficio di alcuni. Oggi possiamo riconoscere che «ci siamo nutriti con sogni di splendore e grandezza e abbiamo finito per mangiare distrazione, chiusura e solitudine; ci siamo ingozzati di connessioni e abbiamo perso il gusto della fraternità. Abbiamo cercato il risultato rapido e sicuro e ci troviamo oppressi dall’impazienza e dall’ansia. Prigionieri della virtualità, abbiamo perso il gusto e il sapore della realtà». Il dolore, l’incertezza, il timore e la consapevolezza dei propri limiti che la pandemia ha suscitato, fanno risuonare l’appello a ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza.

Se tutto è connesso, è difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della propria vita e di tutto ciò che esiste. Non voglio dire che si tratta di una sorta di castigo divino. E neppure basterebbe affermare che il danno causato alla natura alla fine chiede il conto dei nostri soprusi. È la realtà stessa che geme e si ribella. Viene alla mente il celebre verso del poeta Virgilio che evoca le lacrimevoli vicende umane. Velocemente però dimentichiamo le lezioni della storia, «maestra di vita». Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica.

Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”. Che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare. Che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori, in parte come effetto di sistemi sanitari smantellati anno dopo anno. Che un così grande dolore non sia inutile, che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri, affinché l’umanità rinasca con tutti i volti, tutte le mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo creato. Se non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto. Inoltre, non si dovrebbe ingenuamente ignorare che “l’ossessione per uno stile di vita consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare soltanto violenza e distruzione reciproca”. Il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia.

  1. Per concludere

Dobbiamo dunque farci interrogare dal tempo presente, non dimenticando che ogni tempo è per l’uomo kairos o cronos, a secondo di come noi stessi lo accogliamo e lo viviamo. La forza dell’amore – dell’agape evangelico – ci doni la grazia di uno sguardo che travalichi i pusillanimi giudizi avvalorati da una visione giuridicista della storia e ci doni invece la grazia di uno sguardo ampio, grande, che vada oltre le contraddizione del virus Covid-19, donandoci, anche tramite di esso, lo spazio per una risposta sempre nuova alle esigenze di Dio che sono sempre guidate dall’amore. In una felice passaggio, proprio qualche settimana fa, all’angelus, papa Francesco ci ricordava che «la vita morale e religiosa non può ridursi a un’obbedienza ansiosa e forzata ma deve avere come principio l’amore… un amore che deve tendere insieme verso Dio verso il prossimo». Abbiamo bisogno di una piena consapevolezza che, dinanzi alle gravi e sembrerebbero irreversibili disgrazie che l’uomo stesso avalla e propina, non ci ponga dinanzi ad una sconfortante rassegnazione, l’amore evangelico ci chiede di rispondere con altra moneta. Ci chiede di prendere noi, ognuno di noi, per quel che ci consta e per quella storia che si conduce, per quel mondo in cui si vive e per quella creazione che si “incontra”, la grave ma bellissima responsabilità che non dimentichi il comandamento della custodia per sconfiggere ogni sfruttamento e ogni manipolazione.

Solo in questo modo saremo in grado di riconoscere le nostre responsabilità, nella consapevolezza che se anche «un piccolo virus continua a causare ferite profonde e smaschera le nostre vulnerabilità fisiche, sociali e spirituali, mettendo a nudo la grande disuguaglianza che regna del mondo… dobbiamo andare avanti con tenerezza. Una società solidale ed equa è una società più sana. Una società partecipativa – dove gli ‘ultimi’ sono tenuti in considerazione come i ‘primi’ – rafforza la comunione. Una società dove si rispetta la diversità è molto più resistente a qualsiasi tipo di virus». Che la bontà di Dio ci doni quella forza spirituale, cioè che proviene ed è spinta di Spirito Santo, per arginare ogni visione e attuazione della vita che mortifica l’uomo e la sua creazione a scapito del profitto o degli interessi di pochi, allora l’utopia di ‘una immaginazione del possibile’, diverrà sempre più vicina alle nostra attese e lo slogan che ci ha accompagnato in questi mesi – diventeremo migliori? – ci troverà concordi in una risposta positiva, perché, certi che Iddio ci chiama ad una vocazione infinità che partecipi la sua salvezza non solo all’uomo ma ad ogni essere da lui creato.

Marcello Badalamenti ofm
Mercoledì della spiritualità 2020
Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto

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