La Fiducia

a cura di paolo (0 commenti)

La Fiducia

Vorrei contribuire a porre un altro mattone nella riflessione di questi tre giorni dedicati al tema della fiducia: una delle tappe della via della Resurrezione percorsa dalla Fraternità di Romena e da essa indicata alla società e alla Chiesa, al fine di edificare la giustizia, la fraternità e la pace.

 

Nella meditazione che condivido con voi, mi soffermerò anzitutto sulla necessità, per il nostro tempo, di riscoprire e costruire la fiducia, della quale il nostro mondo è così assetato e senza la quale rischia di cadere in un gorgo di individualismo e tristezza. In un secondo momento, considereremo insieme il progetto, il sogno che Papa Francesco ha sulla Chiesa, per renderla sempre più conforme allo spirito evangelico e capace di incontrare le donne e gli uomini di oggi.

 

 

  1. La diffidenza: malattia del nostro tempo

 

Una delle più gravi malattie spirituali degli uomini del nostro tempo, quella che forse coagula in sé tutte le altre e più incide nella vita delle persone, è la tendenza all’individualismo, a cercare la propria felicità a prescindere da quella altrui, tenendo le distanze dagli altri quasi a difendersene. Sono tanti i fattori che hanno determinato questo clima culturale, tra i quali spicca una mentalità utilitaristica, e talora marcatamente edonistica.

 

L’utilitarismo, diffusosi per l’opera di alcuni pensatori tra il Sette e l’Ottocento, ha trovato il suo ideale luogo di coltura nell’economia consumistica, che esalta i desideri soggettivi – e li crea – affermando il diritto a esaudirli il più possibile. L’utilitarismo assume come criterio di discernimento e di azione la massimizzazione del piacere e del bene soggettivo, senza considerare con coerenza il fatto che, non di rado, essi contrastano con il bene altrui e l’interesse collettivo.

 

Ora, anche per chi non abbia studiato né conosca autori come John Stuart Mill o Jeremy Bentham, il pensiero che da essi si è sviluppato è entrato nella mente e nel modo di agire, determinando uno stile di vita diffuso che fa del perseguimento del proprio interesse il criterio ultimo e supremo delle proprie azioni.

 

Tale tendenza si oppone radicalmente a tanti segni e sforzi di bene che troviamo accanto a noi, e dei quali pure è ricco il nostro tempo. Essi si manifestano nel forte desiderio – seppure spesso tradito – di un’etica pubblica rigorosa, nella diffusa partecipazione a gruppi e iniziative di volontariato, nel sentimento di compassione che muove tanti davanti ai fatti di cronaca più pietosi. Eppure, questi germi positivi stentano a svilupparsi e a crescere, a causa di un clima di timore e diffidenza, il quale mina le relazioni e compromette la circolazione dei beni relazionali che ne scaturiscono, i quali sono i più preziosi ed essenziali.

 

Immagino che il professor Luigino Bruni, che è intervenuto questa mattina, ne abbia parlato con abbondanza: se non ci si sente parte di un unico corpo sociale e non si comprende che nell’altro non vi è un avversario, ma un alleato, la cui fortuna è parte della propria, si sciupa l’opportunità di sostenersi a vicenda e mettere a frutto i beni che nascono dalla relazione, immateriali e vitali, infiniti perché legati alla nostra volontà e non al ritrovamento di un giacimento, come può essere nel caso di un qualche materiale prezioso.

 

Chi scelga di impiegare una parte del proprio tempo libero non per se stesso ma per dedicarsi agli altri, per esempio visitando delle persone malate o assistendo poveri ed esclusi, genererà delle ricchezze umane e relazionali che prima non esistevano: il sorriso regalato a chi soffre, l’ascolto offerto a chi sente il bisogno di comunicare per le sue pene, la promessa di essere presente nel momento del bisogno rappresentano dei sostegni umani non sostituibili con alcun tipo di assistenza tecnica o materiale, e non reperibili sul mercato.

 

L’amicizia è gratuita e non si può comprare, e la mentalità individualistica da cui ci dobbiamo guardare ne disseca la sorgente. Per una società e una Chiesa della fiducia e non della diffidenza è necessario moltiplicare tali beni e combattere, anzitutto in noi, la tentazione a isolarci e a difenderci da chi sentiamo diverso, chiudendo il cuore, sbarrando i confini e ripiegandoci nel conseguimento di una felicità solo apparente, perché vissuta per se stessi.

 

 

  1. La fiducia … per una Chiesa e una società aperte

 

Il contrario della diffidenza, che sembra caratterizzare gran parte dei rapporti, è la fiducia. Essa non è solo linfa vitale per l’esistenza della singola persona. Solo diffuse relazioni improntate alla fiducia permettono il costituirsi di realtà comunitarie solide e propositive.

 

Sul piano linguistico, se da una parte, “fiducia” è una di quelle parole che viaggiando di bocca in bocca rischia di essere banalizzata, di perdere il suo significato o di vederlo stravolto; grazie a chi investe sulla fiducia, essa può invece uscirne arricchita perché - “avere fiducia”, “dare fiducia”, “guadagnarsi la fiducia”, “godere della fiducia”, “perdere fiducia” – sono tutte esperienze nelle quali il soggetto viene coinvolto al punto che la sua vita ne esce fortemente ridisegnata e l’ambiente circostante arricchito e trasformato.

 

Se, in positivo, chi ha fiducia e dona fiducia raccoglie i frutti della reciprocità che comporta l’esercizio della fiducia e non fa fatica a mettersi ragionevolmente in gioco; perdere invece la fiducia altrui è l’anticamera della perdita di fiducia in se stessi ed è il primo passo per rinunciare a investire le proprie energie in una direzione qualsiasi. Sempre comunque il lasciarsi contagiare dalla fiducia o il rifiutarla comporta un cambiamento.

 

Recuperare qualche elemento storico-etimologico relativo alla fiducia può aiutare a caricare di contenuti il titolo di questo mio intervento che vede nella fiducia, frutto della fraternità, la strada da percorrere se si vuole contribuire a creare una Chiesa e una società aperte. Per i Greci pistis, è, a seconda dei casi, la fede, la fedeltà, la credibilità, ma anche una garanzia economica che si offre a qualcuno. Da qui, una prima considerazione: la fiducia che contribuisce a creare Chiesa e società aperte è un atteggiamento che richiede impegno concreto.

 

Ma Pistisè anche la personificazione della Lealtà (la dea Pistis). Il sostantivo femminile, poi, deriva dal maschile pistos, un termine ancora più deciso e forte che per i Greci rimanda in maniera chiara e senza equivoci a «colui che non tradisce». Eschilo, infatti, nell’Agamennone – dramma di guerra - conferisce solo al pistosil privilegio di stringere accordi.

 

In più, il verbo greco pisteuo, nella sua attestazione più tarda, ad esempio con il grammatico Polluce, crea il collegamento fiducia-verità, per cui colui che è degno di fiducia diviene, quasi per sillogismo, «colui che dice il vero», e viceversa. Quindi la fiducia che contribuisce a creare Chiesa e società aperte richiede impiego di energie, concretezza e fedeltà alla verità e agli impegni presi.

 

 

  1. Osare la fiducia, pronti a “potare”

 

Consultando on line il vostro giornalino, ho trovato un numero del 2000 dedicato al tema della fiducia, nel quale don Luigi Verdi, fondatore e responsabile della comunità, sprona a Osare la fiducia e, accennando al racconto evangelico della pesca miracolosa, ricorda che «la sfiducia taglia le radici della vita, [mentre] la fiducia le fortifica»1. Il rimando all’avvenimento dell’incontro e del dialogo tra Gesù e Pietro sul lago di Tiberiade, ci ricorda che la fiducia si fonda ultimamente sulla fede: infatti, il riconoscimento dell'altro come fratello parte dalla consapevolezza che Dio è Padre di tutti e ama tutti i suoi figli.

 

Sulla barca, il Maestro invita quello che sarà il capo degli Apostoli a gettare le reti in mare; questi, nella sua generosità e nel suo solito slancio, conferma che lo farà anche se – spiega – «abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (Lc 5,5). Proprio qui sta la fede: da un punto di vista umano, quel gesto era privo di senso, perché avrebbe solo confermato l’impossibilità di trovare del pesce e l’inutilità di ogni sforzo umano. Sulla parola di Gesù, però, lo stesso gesto diviene fecondo e porta un esito sovrabbondante, tanto che la barca si riempie di pesci.

 

Vorremmo poterci trovare in una situazione simile a quella vissuta da Pietro, caso mai con la certezza che alla nostra risposta corrisponderà la benedizione divina. Se ci pensiamo un poco, però, noi ci troviamo ogni giorno, potremmo anche dire a ogni istante, in quella medesima situazione: anche a noi Gesù chiede di continuo di gettare le reti, pur se da un punto di vista umano ciò sembra privo di efficacia.

 

Anche noi siamo chiamati, in ogni scelta che compiamo, a fidarci di lui, sapendo che nel compiere la sua volontà le nostre umili azioni sono rivestite di una forza che viene dall’alto. E ciò ci spinge a riconoscere – come Pietro – in Gesù il Signore, a guardare con occhi nuovi ogni persona e ogni evento, facendoci costruttori di fraternità e di fiducia. Se infatti Dio è con noi – affermiamo facendo eco all’Apostolo Paolo – chi sarà contro di noi, e cosa dovremo ormai temere?

 

Ecco come la fede diviene un volano di confidenza nel futuro e di comunione fraterna, a fronte del tentativo – spesso riuscito – di relegarla ai margini del sociale dichiarandola privata, solo intima, cioè inutile e superflua. Ecco come – ancora – se vissute con Dio le prove non si riducono a luoghi di sofferenza, ma divengano occasioni dell’intervento divino. Nell’articolo che ho ricordato poco fa, don Luigi richiama la crisi spirituale che egli ha attraversato per lungo tempo, ed è stata però feconda perché, vissuta nella fede, lo ha maggiormente aperto alla voce dello Spirito e all’azione di Dio.

 

Come la Bibbia ci mostra in ogni sua pagina, il Signore non agisce quando siamo forti, «perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,29), ma entra nella nostra debolezza per rialzarci e opera cose grandi a partire dalla nostra incapacità a realizzarle, se solo ci fidiamo di lui. È questa la regola fondamentale della vita cristiana, della quale la croce è il simbolo supremo: l’atto più potente di Dio, attraverso il quale ha vinto la morte e il peccato e ha rinnovato tutte le cose, coincide con il momento di suprema debolezza del suo Figlio, ridotto a verme – come suggerisce il testo biblico – e abbassato nell’umiliazione della morte.

 

Nello scorrere alcune copie del giornalino della Comunità di Romena, mi ha attratto anche un altro numero, intitolato Potare (2009/1). È un verbo significativo per il Vangelo, è condizione del progresso spirituale e umano e si lega fortemente al cammino della fiducia. Solo chi sa recidere da sé i rami secchi o le foglie malate, non sarà appesantito da ciò che è inutile o dannoso e potrà uscire dal ripiegamento su se stesso, per aprirsi agli altri e costruire insieme a loro.

 

La fraternità presuppone infatti un lavoro personale di conversione continua, e quindi una potatura sempre aggiornata, sempre da rifare. Se il nostro impegno spirituale funziona bene, la potatura sarà inizialmente di rami grandi, e via via si concentrerà sempre più su dettagli più piccoli. Ma di continuo ci sarà da potare e ripulire.

 

Ce lo insegna Santa Teresa di Lisieux, quando paragona lo stato della nostra anima alla limpidezza di un bicchiere: se guardato con superficialità o a distanza, esso può sembrare pulito, ma man mano che si avanza nella via della perfezione, e si pone la nostra anima più a contatto con il sole divino, ecco che appaiono tante imperfezioni e il pulviscolo, che prima neppure veniva notato, va ora tolto e ripulito. Non abbattiamoci allora se ci scopriamo imperfetti: anche queste sono debolezze che “attirano” la misericordia di Dio e lo spingono ad agire; né scandalizziamoci dei limiti altrui, pur se a volte ci fanno soffrire.

 

Il numero del giornalino dedicato alla potatura mi ha colpito anche per il breve racconto con cui si apre. Si racconta di Wolfgang, un non vedente che conosce alla perfezione un bosco attorno a Romena, che ha accuratamente ripulito e custodisce, e ne illustra i segreti alla persona che scrive e racconta dell’incontro con lui. Nonostante la sua cecità, Wolfgang è quello che ci vede meglio dei due, e illustra all’amico i ruderi di una casa, che egli inizialmente non riusciva a scorgere.

 

Troviamo in questa breve vicenda un grande insegnamento: essa ci ricorda che tutti hanno un contributo da offrire, e chi spesso viene ritenuto meno capace o è più debole, ha in realtà molto più da dare, perché attinge in modo più immediato ad altri canali, quelli dell’amore e dell’umiltà, in genere trascurati da chi si sente forte. È per questo che «le membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie» (1Cor 12,22), e ci dobbiamo educare a guardare con gli occhi del cuore (Ef 1,18), oltre che con quelli del corpo, che possono spingerci alla presunzione o a cogliere le cose solo in superficie.

 

Percorreremo così in modo più pieno la via della Resurrezione, e ci associeremo ancora una volta a Pietro, chiamato nuovamente a gettare le reti, sulla parola di Gesù, dopo la sua risurrezione (Gv 21,6). Egli impara così che non solo la prima volta, ma ogni giorno è chiamato a gettare la rete sul comando del Signore, e che la sua risurrezione è il presupposto per portare un frutto duraturo, è certezza della sua presenza tra coloro che ha chiamato fratelli ed è la condizione per il buon esito della missione.

 

 

  1. «Sognate anche voi questa Chiesa»2

 

Le riflessioni fatte fin qui ci portano diretti al cuore del progetto di Francesco per la Chiesa, che egli vede nella sua bellezza e ama, ma alla quale chiede un costante sforzo di conversione e di rinnovamento in un mondo che cambia, che lo vogliamo o no. Alla nostra Chiesa Francesco continua a chiedere di “uscire”, di riscoprire cioè e di vivere la sua dimensione missionaria.

 

È necessario “uscire” per non impoverire o rendere addirittura irrilevante la forza dell’annunzio evangelico; è necessario uscire per capire chi sta dall'altra parte e quali sono le sue domande; è necessario uscire per capire come la pensa chi sta dall'altra parte e quali sono le sue attese; è necessario uscire, non per adeguarci, ma per adeguare il linguaggio, per affinare la sensibilità e per ridefinire, a partire dal Vangelo, le priorità. Purtroppo, quando ci sottraiamo a questo impegnativo esercizio finiamo per dare risposte a domanda che mai nessuno ci ha rivolto e investiamo energie in direzioni sbagliate.

 

È evidente che essere “Chiesa in uscita” e dare gambe al sogno di Francesco è esigente né potrebbe essere altrimenti, perché domanda quella fiducia del cuore e della mente che impedisce di lasciarsi prendere da un pessimismo sterile (Evangeliigaudium, n. 34); domanda lo sguardo di chi riconosce che negli strati della società ci sono molti segni della sete di Dio rispetto ai quali c'è bisogno di persone animate da fiducia e cariche di speranza.

 

Il Papa chiede al n. 36 dell’Esortazione apostolica Evangeliigaudiumdi essere "persone anfore" per dare da bere agli altri. Domanda, soprattutto un improrogabile rinnovamento ecclesiale che passa dal far crescere la coscienza dell'esistenza dell’altro con una sua identità, con una storia e con un volto irripetibili.

 

L'esperienza ecclesiale alla quale il Papa non si stanca di richiamarci con quella espressione "chiesa in uscita" è evidentemente una esperienza ecclesiale viva, propositiva, cordiale, fiduciosa. Molte volte abbiamo paura di questi termini; anche noi sacerdoti pensiamo che quanto più mostriamo il viso arcigno alla nostra gente, tanto più passiamo per essere i Giosuè della situazione.

 

Dobbiamo convincerci che il ponte attraverso il quale passano certi contenuti e, soprattutto i contenuti del Vangelo, è la relazione che si stabilisce sulla base di una fiducia reciproca. Non vi sono relazioni vere e costruttive al di fuori di un rapporto di fiducia. Ciò va ovviamente in direzione opposta rispetto a quella segnata dalla mentalità di chi decide di non mischiarsi con la realtà, di non voler scommettere sulle relazioni, di non fare esercizi di fiducia perché evidentemente teme di essere trovato impreparato o di essere chiamato a cambiare.

 

Per non rimanere vittime di questa mentalità, papa Francesco chiama a condividere il suo sogno. Al n. 27 della Evangeliigaudium, si legge: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione».

 

Il grande nemico della "Chiesa in uscita", ma più in generale, il grande nemico di una società e di una Chiesa aperte è la voglia di autopreservarsi e di preservare le strutture, da quelle fisiche a quelle mentali e interiori. Se la conversione mentale richiede tutto quello che fin qui si è detto, la riforma delle strutture esige l’impegno per una pastorale che, in tutte le sue istanze, sia più espansiva, aperta e non ripetitiva.

 

Nonostante la fatica che tutto questo comporta, questo non è il tempo, ammesso che lo sia mai stato, per ripiegarsi sulla lamentela di quello che manca o per concentrarsi sulla zizzania, invece che sul vino nuovo. Dobbiamo educarci di più a partire col piede giusto; a partire cioè col vedere ciò che c'è di bello e di buono in questo nostro mondo, capace di alimentare la violenza cieca che non smette di mietere vittime, ma è anche in grado di aprire orizzonti nuovi e spazi di vita imprevisti.

 

Guardiamo alla vita di ognuno di noi. Tante volte mi sembra proprio di non potercela fare e di non riuscire a venire a capo di fragilità che rischiano di isterilire la mia vita. Poi, in maniera imprevista e del tutto gratuita e quindi provvidenziale, incrocio una parola, uno sguardo o un invito che rimette tutto in moto nella direzione giusta. Quella che, capisci, è la direzione sulla quale il Signore ti vuole in cammino.

 

Quello che vale per il singolo, vale per la Chiesa intera. Ogni nostro sforzo deve mirare a rendere la Chiesa più vera e autentica, più limpida e quindi più bella e capace di attrarre tanti. Non è, questo, un progetto di dominio, come qualcuno teme, ma un programma di servizio universale. Dare vita a una Chiesa più missionaria e a comunità cristiane più aperte e sostenute dalla fiducia non ha come obiettivo ultimo il miglioramento della Chiesa in sé ma, appunto, la sua missione.

 

Il fine della santità della Chiesa non è la santità della Chiesa, ma la sua presenza salvifica per il mondo intero attraverso il servizio e la testimonianza rese al Signore Risorto. Questo sguardo che dalla Chiesa si allarga al mondo intero ce lo ha consegnato Francesco pochi mesi fa, mentre gli veniva conferito il Premio Carlo Magno. Quello che Francesco sogna per l’Europa vale per il nostro mondo.

 

«Sogno un’Europa giovane che sia capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto.

 

Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile.

 

Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».

Nunzio Galantino

 

(articolo tratto da www.nunziogalantino.it) 

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